Calderón

Calderón
Calderón

Ogni volta che si parla di un’opera di Pier Paolo Pasolini – sia essa teatrale, letteraria o cinematografica – c’è tanto di quel materiale con cui confrontarsi che ci si potrebbe ricavare una tesi di laurea. Non fa eccezione Calderón, dramma di due ore e un quarto senza intervallo andato in scena al Teatro Argentina dal 20 aprile all’8 maggio 2016. E proprio al teatro, fra la produzione del poeta di Casarsa, si è prestata minore attenzione a causa della difficile classificazione delle sue pièces, fortemente sperimentali per l’Italia degli anni ’60-’70.

Un testo la cui complessità viene restituita dall’elaborata messa in scena studiata dal regista Federico Tiezzi: il gioco cromatico sul bianco e nero anche nei costumi (splendidi quelli ispirati al celeberrimo quadro Las Meninas di Velázquez), cambi a scena aperta (stacco netto solo tra un atto e l’altro), il tempo che passa attraverso flash di luce (anch’esse bianche), rispecchiando il cambio di ambienti, le dinamiche e i meccanismi propri del sogno.

I temi pasoliniani sulla poesia e sulla società si riflettono anche nel modo di parlare dei personaggi. Gli attori recitano in maniera volutamente affettata, non c’è alcuna alternanza di livelli e di stili, fanno tutti lo stesso discorso e parlano in terza persona, acuendo il senso di straniamento. Un teatro antinaturalistico, metaforico, che dà voce a figure che non sono linguaggio, un po’ come le maschere nella commedia dell’arte che rappresentano tipi fissi (qui sono impersonificati il Potere Borghese, la Ragione Marxista, la Ragione Poetica…).

L’opera è una rilettura del celeberrimo dramma del 1635 di Pedro Calderón de la Barca La vita è sogno, ambientato da Pasolini nel 1967 nella Spagna franchista (molto simile però alla borgata romana, come suggerito dai canti in dialetto romanesco intonati nel secondo sogno) e rappresenta una discesa agli inferi del mondo sociale e di se stessi, parabola di un conflitto generazionale in versi.

Rosaura si risveglia in un letto posto al centro del palco. Non riconosce chi la circonda, né se stessa, né dove si trova: Stanotte non ho sognato niente perché questo È un sogno. Scena che si reitera altre due volte, con lo stesso meccanismo e con dialoghi quasi identici ma sotto diverse sembianze, in diverse classi sociali (aristocrazia, proletariato e piccola-borghesia) e in diverse età, finché nell’ultima, donna matura con marito e figli, scopre di aver solo sognato le due vite precedenti, e di non poter cambiare la sua posizione sociale ed esistenziale.

Calderón altro non è, dunque, che un grande affresco sulla borghesia, sulle speranze politiche, sociali e morali degli anni Sessanta, quando i giovani si illudevano che la borghesia stesse vivendo i suoi ultimi sussulti, mentre Pasolini aveva già intuito […] che stava trasformandosi proprio per perpetuarsi di padre in figlio. Considerazione politica, questa, che nel teatro di Pasolini si intreccia con il groviglio freudiano venato di erotismo del figlio che ama e odia il padre e del padre che ama e che invidia il figlio, spiega Tiezzi.

Infatti Rosaura si innamora, inconsapevolmente, del padre nel primo sogno e del figlio nel secondo. Un meccanismo perverso che rivela una protagonista bloccata in una società a cui non vuole appartenere, in cui l’amore incestuoso è simbolo di diversità e trasgressione, fuga dall’ordine e dalle regole imposte all’individuo in ogni ambiente e luogo. L’amore non è pensabile senza un significato sociale, tuona il padre fittizio/marito Basilio, interpretato da Sandro Lombardi. Da ciò la censura del Potere (che assume ora le sembianze dei genitori, ora del marito) per ciò che viene visto come sintomo di una deviazione dalla realtà, che come tale è una ‘minaccia’ e non può essere ammessa, poiché bisogna conformarsi ai costumi. Riconosci la tua vita in quella degli altri, e vedrai che sarà vera.

La cifra distintiva, che unisce idealmente il testo di Pasolini con quello di Calderón de la Barca è, oltre alla mutuazione dei nomi dei personaggi de La vita è sogno (di cui si parla esplicitamente nella rappresentazione), il ricorso all’espediente narrativo del sogno, qui utilizzato come forma di eversione e di ribellione in cui l’individuo cerca di esprimersi per quello che è, di sottrarsi al codice oppressivo (della società borghese) in base a cui è costretto a vivere.

Le sequenze oniriche appaiono come matrioske, che man mano che si aprono conducono al nocciolo della questione: il rientro del ‘ribelle’ nell’alveo del sistema dei valori della società di appartenenza, allo status quo. Il Potere lascia ‘sfogare’ i dissenzienti per poi riassorbirli, mero strumento per riaffermare il proprio dominio: una storia alternativa a quella borghese (o una vera rivoluzione) è impossibile al di fuori del sogno. Se questo è un sogno, non serve che a rendere più reale la realtà è l’amara sentenza di Basilio, sulla falsariga del celebre verso di Calderón: Ché tutta la vita è sogno/ e i sogni, sogni sono, in cui la questione però è incentrata sul liberarsi dal sogno in quanto stato di incertezza e finzione insinuato da altri, che fa credere cose che non esistono e causa la parziale paralisi della volontà e un’angoscia dell’essere, del non essere e dell’esistere (notevolmente moderno per un testo teatrale del ‘600, benché debitore di Shakespeare), contrapposto alla verità e all’apparenza (comunque ingannevole).

La terza Rosaura al risveglio non riesce a rientrare nella vita e impazzisce, parlando in modo sconnesso: è un’asociale, una disadattata dal suo mondo borghese. Poiché con il sogno essa ha trovato il modo di disobbedire senza essere disobbediente, il marito vuole e si accontenta che lei torni obbediente senza essere obbediente: l’importante è che le cose riprendano il loro posto. E infatti dopo un anno di cure lei torna in famiglia guarita, rientra nel mondo. Un mondo autoreferenziale che esclude qualsiasi problema esterno, l’alterità di ciò che accade ‘fuori’ dal salotto non gli appartiene, deve rimanere confinato. Tuttavia Rosaura a causa della sua diversità (sessuale, ideologica e politica) non si integrerà mai alla normalità, e ciò emerge chiaramente quando entra in scena il giovane studente Enrique, e i due si riconoscono subito pur non conoscendosi. Poi però si addormentano entrambi, sogno da cui lei si desta stavolta felice perché ricorda cosa ha sognato: nel lager in cui è rinchiusa (la sua condizione borghese) una libertà ci rimane: quella di tradirci, di poter finalmente ammiccare ai padroni che vengono a condannarci. Infine arrivarono gli operai con le bandiere rosse a liberarci; ma Basilio si affretta a rassicurarla: questo sogno è sicuro che non si avvererà.

Claudia Galati